Un branco di cavalli
"sanfratellani" nei boschi messinesi fra San
Fratello e Cesarò. Sono alcune delle fotografie che portano la firma di Enzo Sellerio e corredarono
un servizio di Aldo Scimè pubblicato sulla rivista "Sicilia" edita
nel settembre del 1962 dall'Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo della Regione
Siciliana.
Fotografie e
parte del testo di quell'articolo restituiscono alcuni aspetti ormai perduti di
vita rurale del periodo nei Nebrodi.
Sellerio eseguì i suoi scatti fra i boschi dei Nebrodi, tra Cesarò e San Fratello: i
soggetti del fotografo furono i cavalli e puledri definiti “sanfratellani”.
All'epoca del reportage
di Sellerio e Scimè, i cavalli
"sanfratellani" erano circa un migliaio. La loro vita -
e quella dei "giumentari", loro custodi - si svolgeva tra
boschi di querce e sugheri, su un'area di
circa 15.000 ettari.
Il reportage di Sellerio accompagnò un articolo del
giornalista Aldo Scimè intitolato “Western a San Fratello”, corredato da
un disegno di Aligi Sassu (foto sopra) ed ancor oggi ricco di preziose indicazioni
sull’allevamento dei cavalli di San Fratello.
L’interesse del fotografo palermitano e di Scimè nei
confronti di questi animali seguì quello di molti altri documentaristi che
nell’Italia degli anni Sessanta – in piena epoca di trasformazioni del costume
e dell’ambiente – “scoprirono” le residue sopravvivenze di vita equestre allo
stato brado: quella dei butteri maremmani, dei cavallini sardi della Giara di
Gesturi e, appunto, dei cavalli “sanfratellani”.
Per riconoscere i
propri cavalli, i giumentari li dotavano di campane al collo dalla caratteristica
tonalità. Il loro
intervento era fondamentale soprattutto nella stagione invernale, quando gli
animali erano esposti ai rischi del freddo e
necessitavano per questo motivo di un
trasferimento in bassa collina.
Oltre a riproporre le immagini del
reportage di Enzo Sellerio, riproponiamo anche i passi salienti del
racconto di Aldo Scimè fra boschi, “giumentari” e cavalli: uno spaccato di dura
e selvaggia vita sui monti Nebrodi di 50 anni fa.
Proprietari dei cavalli
erano numerosi allevatori di San Fratello. Gli esemplari
maschi, all'età di due anni, venivano venduti nelle fiere. Le cavalle
invece erano mantenute per lunghi anni e a volte costituivano la dote delle
ragazze destinate al matrimonio.
“Nei grandi boschi delle
Caronie fra Cesarò e San Fratello vivono allo stato brado oltre un migliaio di
cavalli di razza ‘sanfratellana’.
Sono di mantello
generalmente scuro, di fibra robusta, dal forte impianto scheletrico, dalla
groppo vasta e solida. Suddivisi in branchi vivono di ciò che il bosco ed il
sottobosco offrono loro. E non è raro che d’inverno i giumentari ne trovino
qualcuno impietrito dalla neve: ucciso dal freddo.
La selezione naturale
fortissima e spietata ha reso perciò robusta la razza (per quanto di vera e
propria razza non si possa ancora parlare) di questi cavalli, l’ultima
famiglia equina, in Europa, che viva ancora allo stato brado.
I boschi di querce e di
sugheri sono il loro regno: circa 15.000 ettari che costituivano una volta i
feudi dei Cortes e poi dei Pignatelli, ora in massima parte acquistati dagli
allevatori di San Fratello che vi lasciano pascolare in libertà i cavalli.
Ma soltanto alle cavalle
l’uomo concede, pieno, il privilegio della libertà: i puledri all’età di due
anni vengono infatti catturati e lasciano per sempre il branco: saranno venduti
nelle fiere di maggio.
Tutti a San Fratello
sono allevatori. Ogni famiglia o ogni ‘partito’ (cioè gruppi di allevatori non
consanguinei associati tra di loro), dispongono di centinaia e centinaia di
ettari di bosco, dal monte al fiume Inganno. E non è raro il caso che alla
figlia si assegni in dote un branco di scalpitanti cavalle.
Lasciata San
Fratello, la strada porta su verso i grandi feudi Danaci, San Barbaro, Badetta,
Santa Maria. Poi la strada si ferma e si prosegue per impervi sentieri tra
boschi e montagne, noti soltanto ai giumentari.
Man mano che si sale, il
paesaggio diventa più aspro, più forte e più puro. Finalmente un lontano
tremito di zoccoli. Ed ecco i cavalli sparire leggeri per una breve radura e
riapparire lontani inseguiti dai giumentari.
Almeno una volta
all’anno i branchi vengono circondati e spinti a valle verso una delle cinque
stazioni ippiche disseminate nei feudi.
Presi al laccio alla
maniera dei cow boys, vengono censiti, marchiati (ogni proprietario ha un suo
marchio), sottoposti ad una sommaria visita medica.
Qui i puledri, ormai
adulti, si separano per sempre dalle madri. Il branco ormai accerchiato scende
giù verso Mirtoti, una delle cinque stazioni di monta, una casa con un recinto
dietro.
Qui attende Nagi Lak, un magnifico stallone ungherese di razza Nonius,
uno dei sei stalloni importati dall’Ungheria dal colonnello Paolo Marsala,
direttore del centro cavalli stalloni di Catania.
Marsala è il padrino dei
cavalli, ai quali da il nome (la lettera iniziale cambia ogni anno) e un
premio in denaro per il proprietario. Ogni cavallo è segnato su un registro
anagrafico. Marsala lavora con passione allo scopo di creare una vera razza di
cavalli ‘sanfratellani’, nelle cui vene scorre il sangue dei maremmani e dei
‘persano’ (un comune del salernitano dove i Borboni allevavano i classici
cavalli ‘postiglione’).
Ora, incrociati con i
Nonius ungheresi, che vivono allo stato semibrado, si spera di mettere a punto
un tipo di cavallo agricolo, da tiro medio, particolarmente richiesto nelle
zone di collina, dove la macchina non può essere utilmente impiegata.
A Mirtoti finisce una intensa giornata di lavoro. I giumentari eseguono
l’ultima operazione: per ogni branco attaccano al collo di una cavalla (hanno
tutte nomi bellissimi: Gardenia, Ifigenia, Lucciola) una campana.
Ogni branco ha una
campana di tono diverso. Sicchè all’orecchio finissimo dei giumentari è facile,
dal diverso tintinnio della campana, riconoscere i branchi e raggiungerli.
I giumentari sono gli
invisibili compagni dei cavalli. Spesso, d’inverno, il loro intervento è
provvidenziale perché i cavalli, investiti dalla tormenta che batte loro sul
muso, sono spinti a salire sempre più su.
Ma ecco accorrere i
giumentari e spingerli verso le zone meno fredde di bassa collina: senza il
loro intervento sarebbero condannati a morire d’inedia e di freddo.
Quest’anno, ciò non
ostante, ne sono morte parecchie di cavalle. Le trovano rigide, in piedi,
addossate ad una quercia, o chine nel disperato tentativo di spostare una
pietra nella speranza di trovare un po’ d’erba sotto. Una vita dura per
uomini e bestie, accomunate dallo stesso destino”. [fonte: Sicilia (1962), ReportageSicilia]
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