di Salvatore Emanuele
Il prossimo 25 Aprile ricorre il settantesimo della fine, in
Italia, della seconda guerra mondiale. E io, lo vorrei ricordare ai posteri, così, com’io la vissi.
SETTANT’ANNI son trascorsi da quel che avvenne quel dì 25
aprile 1945. E oggi m’è dolce, ma con una sola punta d’amarezza,
ricordare le paure, le tristezze e anche l’orgoglio della libertà raggiunta con
grandi sacrifici e vittime innocenti della protervia di due folli: A. Hitler e
B.A. Mussolini che credendosi «onnipotenti» fecero mettere a ferro e fuoco il
mondo intero.
Pochi siamo rimasti a rimembrare quei giorni dimenticati dai più. È la memoria a ricordare quegli eventi di notevole
risonanza, nel mentre i nostri cosiddetti politici, in veste di politicanti, si
accapigliano per trarne profitti personali e facendo sì che l’invidia, il
livore nei confronti di chi ha maggior successo, si faccia doppiamente aspro.
Non a tanto puntava la nostra lotta, il nostro sacrificale andare. Noi, che uscivamo poveri e derelitti da una sanguinosa
guerra diventata perfino fratricida, speravamo in un ordine pacifico, volto al
conseguimento di benessere per tutti; anche per quei deteriori fascistoidi che
miravano a invelenire la conseguita vittoria sulla loro lugubre frenesia.
È fortemente raffigurativa e significativa la descrizione
che ne fece il Prof. Piero Calamandrei della travolgente passione che animava
il furore dello squadrista A. Pavolini , condottiero della formazione
republichina «La Disperata», che cosi lo descriveva:
“Soprattutto mi restarono impressi, nei cento volti di quella canea urlante,
gli occhi di Alessandro Pavolini, allora studente di legge, che capeggiava
quell’impresa: egli mi guardava senza parlare con occhi così pieni di acuminato
odio che quasi ne rimasi affascinato come se fossero occhi di un rettile: c’era
già in quegli occhi la spietata crudeltà di colui al quale vent’anni dopo, alla
vigilia della liberazione della sua città, doveva essere riservata la gloria di
organizzare i franchi tiratori, incaricati di prendere a fucilate dai tetti le
donne che uscivano durante l’emergenza a far provvista d’acqua.”
Era questi stato un fedele mussoliniano delle squadracce
d’azione fasciste, che riuscì finanche a scalare il dicastero della Cultura
dell’Italia fascista, diventando Ministro del celebre MinCulPop.
E VENNE il 25 APRILE 1945 — IL GIORNO del GIUBILO
Il 25 si appalesò come il giorno della grande Vittoria della
Libertà, raggiunta con il sacrificio di tutti, con le privazioni ancora più
determinate della povera gente; di coloro che raggiunta la agognata libertà
dovevano ancora combattere per raggiungere l’appagamento necessario alla sopravvivenza del popolo.
Una grande battaglia era finita, coronata da successo;
un’altra ne incominciava: quella della immane ricostruzione, al fine di
raggiungere il benessere e la trasformazione economica da agricola ad
industriale.
Per riuscire in tutto ciò era necessario mettere la stessa vigorosa energia che
ci aveva animato nel conquistare la libertà perduta.
Non era facile vivere in un paese dove circolava una moneta
di occupazione. Eran le “Amlire” (Americanlire) a farla da padrone. I biglietti
di banca che i soldati alleati sventolavano sotto il naso di poveri relitti ridotti
allo stato degradante della società a causa delle necessità impellenti.
Gli Americani, per accattivarsi l’empatia dei civili,
specialmente dalle donne e particolarmente delle ragazze, distribuivano a
“iosa” tavolette di cioccolato e sigarette di tutte le varie marche,delle più
famose. Le ragazze si accompagnavano ai soldati, familiarizzavano con loro;
nuove sale da ballo si aprivano alle coppie per farli danzare al suono degli
allora indiavolati, boogie-woogie.
In generale, i soldati erano garbati, gentili con i civili;
mentre fra di loro, nei gruppi, a volte, intercorrevano rapporti di
intemperanza e, se ubriachi, li risolvevano scazzottandosi intensamente fra di
loro in un «ring» senza corde delimitanti il quadrato, ma ben attorniati da un
folto stuolo di commilitoni che li incitavano alla lotta clandestina,
scommettendo denari su chi riuscisse a battere l’avversario. La stessa maniera
in cui, negli USA, avvengono gli incontri di pugilato regolari.
In tal modo si assisteva , penosamente, lungo le strade cittadine a delle
improvvisate scazzottate a pugno nudo ed a visi ridotti a maschere dal fluire
del sangue, rivoli e rivoletti che le faceva diventare grottesche.
La debacle terminava con l’arrivo della M.P. La quale senza
motto proferire, roteando per l’aere lo sfollagente di dura gomma e menando
colpi sul corpo dei contendenti, li prendevano di peso caricandoli sulla “jeep”
della Military Police per trasferirli nei luoghi dotati di celle, dove i
malcapitati potevano far sbollire l’ira e curare ferite e lividi accumulate
nella singolar tenzone.
I soldati inglesi erano più disciplinati, raramente si
potevano vedere scene di questo tenore, forse anche per la ferrea disciplina
che ne spegneva gli ardori, prima ancora che si fossero accesi.
Noi, militari italiani, carabinieri, eravamo da loro ben considerati, tanto
dagli inglesi quanto dagli americani: si fraternizzava e ci scambia dei doni: i
loro erano concreti, fatti di sigarette e cioccolata; i nostri, per forza di
cose era fatti di gesti espressivi, di silenziosa mimica sorridente. Di quel
sorriso che affratella i popoli del mondo intero, e sa comunicare senza parole
in tutte le lingue.
Le ragazze erano molto ricercate, e non soltanto le «escort», per condurle a
ballare e farne coppia, ma anche per farci l’amore nei giardini più appartati.
Le consenzienti si davano per un foglietto delle “amlire” non per amore bensì
per mettere a tacere il mugugno dello stomaco, per saziarlo dalla lunga e nel
tempo abbondante fame, subita a causa del razionamento dei generi di
prima necessità, ancora di difficoltosa reperibilità per l’alto costo che la
«borsanera» pretendeva.
Un periodico settimanale umoristico fiorentino, pubblicato
in quei tempi di disagio economico e morale “La Carrozzella”, un giorno
pubblicò una vignetta caricaturale, dov’era riprodotto il disegno uscito dalla
penna di un d’allora celebre caricaturista, raffigurante una avvenente e
formosa ragazza
che piantando in asso, all’improvviso, il ragazzo con il quale si stava
accompagnando si avviava a prendere a braccetto un soldato americano che
sventolava un biglietto di “Mille Amlire”.
La scenetta era corredata da una beffarda poesiola:
“..….un po’per colpa mia e un po’
per colpa delle cosce sue,
ci s’arrapò parecchio tutte e due,
ma quando si decise d’andar via,
senza aver fatto danni anticipati,
ci si prese abbracciati e strinti strinti,
si venne via, giù… per borgo Pinti.
Quando fummo all’arco di San Piero,
un giovanotto ci passò d’accanto e disse,
“mille lire”, in forestiero.
La mi ragazza mi lasciò di schianto.
Io reagii, ed ora son qui a rimirarmi
con tre cerotti e quattro ammaccature
per via delle ragazze caste e pure.”
Commenti
Posta un commento