Intervista al presidente del consiglio nazionale dei geologi, Gian Vito Graziano: "In Sicilia manca ancora un piano di sicurezza. Pulire canali, tenere sotto controllo il regime delle acque. Manca la manutenzione delle strade, quella che un tempo era affidata agli stradini che pulivano le caditoie. Manca l’agricoltore che una volta presidiava il territorio. Non si è messo mano alle opere infrastrutturali e non si fa pianificazione adeguata. Mancano persino i piani di protezione civile per la gestione degli allarmi."
di Stefania Giuffré.
Un territorio ad alto rischio frane, in cui – secondo il
presidente del Consiglio nazionale dei geologi, Gian Vito Graziano - ancora
poco si è fatto. Ma qualcosa inizia a muoversi.
«Fra le regioni italiane, la Sicilia non è messa malissimo:
in termini di superficie esposta alle frane non è fra le prime, lo stesso come
consumo di suolo (ossia come terreni sottratti all’uso agricolo ed alle
funzioni vitali che il suolo stesso svolge, per realizzare edifici o
infrastrutture). Questo dipende dal tipo di economia, da uno scarso
sfruttamento di tipo industriale, più diffuso in altre regioni. Loro però
stanno facendo danni terribili, basti pensare alle ultime alluvioni in Veneto o
nelle Marche».
In termini numerici come si traduce?
«Secondo l’ultimo rapporto Cresme, che si riferisce al 2012,
in Sicilia ci sono 4.700 frane in attività. Un numero nettamente inferiore
rispetto ad altre regioni come ad esempio l’Emilia Romagna (70 mila) o la Lombardia
(130 mila). Ma sono pur sempre 4.700, significa 18 fenomeni franosi ogni 100
chilometri quadrati contro i 147 della Lombardia. Non c’è da stare tranquilli
insomma. Altre regioni stanno meglio ma dipende da vari fattori: la Sardegna ad
esempio ha un territorio composto prevalentemente da rocce molto resistenti; la
Puglia ha una morfologia più blanda e prevalenza di terreni calcarei. La
Sicilia è composta per l’87% da territorio collinare o montano, con una grande
estensione di terreni argillosi, quindi con maggiore vocazione ai fenomeni
franosi. Ci sono interi centri abitati costruiti sull’argilla».
Quali sono le zone più a rischio?
«Sicuramente l’area del messinese, Nebrodi e Peloritani
soprattutto. Basta guardare qualsiasi carta tecnica di tipo geomorfologico per
osservare in quelle aree una vera e propria nuvoletta di punti rossi, che
stanno ad indicare una forte concentrazione di frane e dunque dimostrano una
maggiore propensione al dissesto. Ricordiamo che dal 2009 al 2010, a fronte di
piogge più intense, ci sono state zone fortemente colpite: Giampilieri e
Scaletta prima, ma poi anche Caronia, Castell’Umberto, San Fratello».
Sono stati adottati provvedimenti per proteggere i
territori?
«In Sicilia purtroppo non abbiamo messo mano alla sicurezza
del territorio. Manca la manutenzione ordinaria, ossia pulire canali, tenere
sotto controllo il regime delle acque. Manca la manutenzione delle strade,
quella che un tempo era affidata agli stradini che pulivano le caditoie. Manca
l’agricoltore che una volta presidiava il territorio. Non si è messo mano alle
opere infrastrutturali e non si fa pianificazione adeguata. Mancano persino i
piani di protezione civile, la gestione degli allarmi. Dal 2009 a oggi siamo
stati a discutere delle cose da fare ma non a farle. Un piano complessivo in
Sicilia non è mai partito, sta invece decollando quello a livello nazionale, un
piano che complessivamente ha bisogno di 21 miliardi».
Cosa prevede questo piano?
«Una parte riguarda le aree metropolitane, 14 in tutta
Italia, 3 in Sicilia (Palermo, Catania e Messina). La prima copertura per
questi interventi c’è ed è pari a 700 milioni di euro. Un’altra parte del piano
riguarda tutto il resto del territorio, 7 mila interventi previsti in tutta
Italia da realizzare da ora al 2020. I primi fondi subito disponibili sono 2
miliardi e 300 milioni».
In questo piano la Sicilia che ruolo ha?
«Le tre città metropolitane hanno presentato i loro
progetti: Catania ha chiesto 57 milioni, Messina 32, Palermo 5,5 milioni per un
solo intervento, quello per la manutenzione dei canali di maltempo. Con questi
fondi hanno avuto priorità Genova col fiume Bisagno e poi Milano, dove si sono
registrate lo scorso inverno sei esondazioni del Seveso. Ma considerato che c’è
già la copertura finanziaria, i primi interventi potrebbero essere decretati e
partire fra fine anno e la prossima primavera. Per quanto riguarda tutte le
altre zone, di competenza della Regione visto che è il presidente incaricato
dalla struttura di missione, sono previsti 903 interventi per un totale di 2
miliardi e mezzo. L’ordine di finanziamento dipende da una priorità assegnata
in base ad alcuni parametri, primo fra tutti l’esposizione al rischio, ma anche
il livello di progettazione».
Sono previsti altri fondi per Giampilieri?
«Non credo, molti interventi sono già stati fatti, la soglia
di rischio è stata abbattuta. Nessuno potrà avere mai una sicurezza totale, ma
si può tendere a soglie di sicurezza compatibili e convivere con esse, purchè
si conoscano. Credo che con gli interventi fatti a Giampilieri oggi ci sia una
soglia più accettabile. È fondamentale però continuare con piccoli interventi
come le manutenzioni e fare molta attenzione ai piani di protezione civile che
in Sicilia sono l’anello debole. La maggior parte sono stati realizzati ma
anche quelli fatti bene dai Comuni sono solo sulla carta, non sono stati
divulgati. E così non servono a nulla».
Dal viadotto Scorciavacche al viadotto Himera, com’è
possibile che le strade siciliane corrano questi rischi?
«La Sicilia ha un vasto territorio collinare e montano ed
ampia presenza di terreni argillosi: ciò si traduce in una fortissima vocazione
al dissesto, basta un po’ d’acqua ed una certa pendenza per rendere i terreni
franosi. La nostra rete stradale interseca molti versanti a rischio. E la
manutenzione, per colpa di una legge inadeguata, in Sicilia come nel resto
d’Italia, si limita alla manutenzione delle parti strutturali, senza verificare
lo stato del terreno su cui esse si impostano. Scorciavacche e Himera sono solo
due esempi ormai famosi, ma ci sono altri casi di necessaria attenzione. La
geologia complessa della Sicilia è un fatto fisiologico, che però non deve
essere una attenuante, piuttosto deve essere stimolo per una maggiore
attenzione, come hanno fatto recentemente le Ferrovie che stanno verificando la
loro rete nazionale rispetto ai fenomeni franosi».
Per Himera qual è tecnicamente secondo lei la soluzione più
adeguata?
«La strada alternativa che sale verso Caltavuturo ha una
pendenza elevata, è impossibile pensare si possa aprire al traffico pesante. E
non si può nemmeno attutire la pendenza. Una delle proposte di by-pass, quella
che prevedeva il ponte Bailey, era geologicamente la meno problematica, ma pare
che i costi fossero molto alti e che proprio il ponte Bailey non fosse
realizzabile. Pur con tutte le difficoltà connesse, attualmente quella più
praticabile è quella dell’Anas che partirà a breve: escludo invece che si possa
agire sul versante destro, se non con costi ancora maggiori, perchè si tratta
di una zona ancora più esposta alle frane».
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