Giuseppe Lazzaro.
Si rinnova giovedì 10 la festa a San Fratello in onore ai
patroni ALFIO, FILADELFIO e CIRINO. Il programma con la
processione al Santuario dei Tre Santi, l’elenco dei sei premi relativi al
sorteggio e la storia dei Santi fratelli…
Si rinnova giovedì 10 la festa a San Fratello in onore ai
patroni Alfio, Filadelfio e Cirino. I solenni festeggiamenti, iniziati l’1
maggio, sono organizzati dall’Arciprete Salvatore Di Piazza con padre Francesco
De Luca e il Comitato. In questa odierna vigilia Santa Messa alle ore 18 e
processione, questo il programma di giovedì 10:
Chiesa Madre:
Ore 8,30: Santa Messa;
Ore 9,30: Processione e pellegrinaggio al Santuario dei Tre
Santi;
Ore 11: Santa Messa presso il Santuario dei Tre Santi;
Ore 14: Processione di ritorno attraverso il Santuario, vie
Normanna, Libertà, Convento, ingresso in Chiesa Madre;
Ore 18: Santa Messa Solenne;
In conclusione il sorteggio con in palio:
Primo premio: quadro dei Tre Santi offerto da Benedetto
Carbonetto;
Secondo premio: pranzo per quattro persone offerto dal
ristorante “Spazi verdi”;
Terzo premio: pizza per quattro persone offerta da “Pizza
Doc”;
Quarto premio: porchetta offerta dall’agriturismo “Il
Vecchio corvo”;
Quinto premio: puledra offerta da Delfio Calabrese;
Sesto premio: sella completa offerta dal Comitato.
LA STORIA DEI TRE SANTI
Alfio (nato a Vaste, III secolo – morto a Lentini il 10
maggio 253), Filadelfo (Vaste, III secolo – Lentini, 10 maggio 253) e Cirino
(Vaste, III secolo – Lentini, 10 maggio 253) sono stati tre fratelli, figli di
Vitale e Benedetta, due patrizi di fede cristiana: i tre giovani, che sarebbero
stati uccisi durante l’epoca delle persecuzioni ordinate dall’Imperatore Decio,
sono considerati Santi Martiri dalla Chiesa Cattolica che il ricorda il 10
maggio, giorno corrispondente al loro dies natalis. Nel 250 l’Imperatore Decio
emanò un editto secondo cui ogni persona doveva effettuare un sacrificio alle
divinità della religione romana; il rifiuto avrebbe significato il rifiuto di
sottomettersi all’impero e la pena sarebbe stata la condanna a morte. È in
questo contesto storico che, secondo la tradizione, verso la fine del 251,
mentre era a capo dell’impero Treboniano Gallo, succeduto a Decio, un plotone
di soldati romani si presentò a Vaste, nella casa patrizia di Vitale e
Benedetta da Locuste. Avevano l’ordine di tradurre in catene i loro tre giovani
figli, rei di avere elusa la legge con la continua testimonianza di quella fede
che avevano assimilato in famiglia. Vennero prima interrogati da Nigellione,
delegato dell’Imperatore per l’Italia meridionale, il quale, impotente a
fiaccarne le convinzioni, li fece trasferire a Roma, convinto che, lontani
dall’influenza del loro precettore Onesimo, sarebbero stati più cedevoli ai
voleri delle autorità imperiali. Qui, giunti e rinchiusi nel carcere mamertino
ai piedi del Campidoglio, subirono un altro processo ad opera del Prefetto
Licinio, conclusosi con un nulla di fatto. Ma, se da un canto non si voleva
infierire sui tre giovani fratelli, espressione di una delle più ragguardevoli
famiglie dell’Impero, dall’altro si pretendeva la loro sottomissione. Ecco
perché vennero trasferiti a Pozzuoli (dove neanche Diomede riuscì a piegarli)
e, successivamente, in Sicilia, dove dettava legge Tertullo, giovane Patrizio
romano e Preside dell’isola, che aveva acquistato fama di funzionario
integerrimo ed autoritario. Sbarcati a Messina il 25 agosto del 252, Alfio,
Cirino e Filadelfio subirono un primo processo a Taormina. Passarono poi
dall’attuale Trecastagni, alle falde dell’Etna, dove durante una sosta, una donna
pietosa donò ai tre fratelli altrettante castagne, che loro piantarono nel
terreno. È, d’altra parte, possibile che il racconto delle castagne origini
dalla cattiva interpretazione dell’espressione “tre casti agni”, cioè agnelli,
nome con cui sarebbero stati indicati originariamente i tre. Alfio,
Cirino e Filadelfo vennero infine condotti a Lentini, sede di una delle dimore
preferite da Tertullo, che per spezzarne la resistenza li volle a sé vicini il
3 settembre 252, giorno del loro arrivo, affidandoli al suo vicario Alessandro,
con il compito di sostituirlo nell’opera di persuasione durante i giorni in cui
sarebbe stato fuori città. Viveva allora a Lentini Tecla, di nobile famiglia e
ricca proprietaria, cugina di Alessandro e da oltre sei anni colpita da
paralisi alle gambe. Appunto per questo, saputo dei prodigi che in nome di
Cristo i tre fratelli avrebbero compiuto durante il tragitto da Roma a Lentini,
chiese al cugino di poterli incontrare, per un ultimo tentativo di ottenere,
per loro tramite, la guarigione. Dato l’immenso affetto che Alessandro nutriva
per Tecla, la richiesta venne esaudita, con suo grande rischio, in uno dei
giorni di assenza di Tertullo. I tre fratelli rimasero commossi alla vista di
quella giovane immobilizzata sul letto e le promisero che avrebbero pregato per
lei. Durante la stessa notte a Tecla sarebbe comparso in sogno l’Apostolo
Andrea il quale, segnatala con un segno di Croce, le assicurò che sarebbe
guarita grazie all’intercessione di quei giovani incarcerati da Tertullo. La
leggenda racconta che ella si svegliò guarita e, ancora con la complicità dello
sbigottito Alessandro, si volle recare subito al carcere per ringraziare i tre
giovinetti che, da allora, continuò a visitare ogni giorno di nascosto,
assistendoli, confortandoli e portando loro da mangiare. La sua opera di
assistenza durò poco, giacché Tertullo, arresosi di fronte alla loro
inflessibile costanza nella fede in Cristo, emanò la sua inappellabile
sentenza, seguita dall’immediata esecuzione: dopo averli fatti girare
ammanettati e frustati per le vie di Lentini, esposti allo scherno della plebe
inferocita ed urlante, ad Alfio venne strappata la lingua (per questo motivo è
considerato il patrono dei muti), Filadelfio fu bruciato su una graticola,
Cirino fu immerso in una caldaia di olio bollente. Era il 10 maggio del 253 ed
Alfio aveva 22 anni e 7 mesi, Filadelfio 21 anni, Cirino 19 anni e 8 mesi. Su
ordine di Tertullo, i loro corpi martirizzati furono legati con funi e
trascinati in una foresta, chiamata “strobilio” per la gran quantità di pini
esistenti. Le spoglie vennero buttate in un pozzo secco, vicino alla casa di
Tecla, ormai convertita alla religione di Cristo la quale, nella notte tra il
10 e l’11 maggio, accompagnata dalla cugina Giustina e da undici servi (di cui
cinque donne), anch’essi cristiani, estrasse i corpi e, trasportatili in una
campagna vicina, diede loro degna sepoltura, sfruttando una piccola grotta,
quella oggi contenuta nella Chiesa di Sant’Alfio e sulla quale successivamente,
nel 261, placatesi le persecuzioni, venne eretto un tempio ed essi dedicato.
La breve vita terrena dei Tre Santi si concluse, dunque, in modo tragico.
Essi vennero però a costituire il seme della chiesa lentinese, che ebbe il
privilegio di essere elevata a sede vescovile, privilegio che tenne sino al
790. Il primo Vescovo di Lentini fu Neofito, nuovo nome di quell’Alessandro,
vicario di Tertullo, convertitosi anch’egli al cristianesimo e consacrato nel
259. Fu Costantino, tredicesimo Vescovo di Lentini (787) che, intimorito dai
pericoli di una imminente invasione musulmana, volle in gran segreto il
trasferimento delle sacre reliquie nel Santuario Normanno sito nella acropoli
di Apollonia (attuale San Fratello). Poi i lentinesi non ebbero più notizia dei
resti dei tre fratelli. Ciò sino al 22 settembre del 1516 quando alcuni operai,
nell’abbattere un muro del monastero di Fragalà nel comune di Frazzanò,
trovarono nascosta in un sacco di tela una cassetta contenente ossa umane ed un
manoscritto in greco antico. L’Abate, informatone, si premurò di far tradurre
il documento che confermò essere quelle ossa i resti umani dei tre giovani
fratelli che erano stati martirizzati a Lentini. Grande fu la gioia dei monaci
che, dopo una solenne processione, conservarono le reliquie nella loro chiesa,
sotto l’altare da tempo consacrato ai Tre Martiri. La notizia ben presto giunse
a Catania e poi a Lentini, dove si decise di mandare cinque sacerdoti ed un
laico alla badia di Fragalà, per sondare gli umori di quei monaci e nello
stesso tempo per studiare la topografia del convento, nel caso si dovesse
ricorrere alla forza. La missione non ebbe un esito felice: alla loro
richiesta, i monaci non si pronunciarono apertamente, avallarono diritti,
chiesero di sentire prima i loro superiori. Al ritorno a Lentini, questa presa
di posizione fu illustrata dagli sconfitti ambasciatori ai loro concittadini
che, desiderosi di avere al più presto i resti dei propri Martiri protettori,
votarono all’unanimità in assemblea di armare una spedizione per avere con la
forza quello che non erano riusciti ad ottenere in forza di quella legge
naturale che dava loro il diritto al possesso delle sacre reliquie. La
spedizione, al comando di Giovanni Musso, giunse sul far della notte del 29
agosto 1517, di fronte al convento di Fragalà. Dopo aver bussato ripetutamente
e rassicurato i monaci delle loro intenzioni, i lentinesi, visti vani i
tentativi di pacifico accesso, decisero l’azione di forza. In breve entrarono
nel cortile. Ai monaci, impauriti per quella brusca invasione di armati,
parteciparono ancora una volta il nobile scopo della loro missione, che altro
non era di ritornare in possesso delle reliquie dei loro Santi protettori. Le
reliquie furono alla fine consegnate dall’Abate. Il 2 settembre 1517 ottanta
cavalieri entrarono al galoppo a Lentini, accolti dagli applausi, portando,
sorretta da “Fra’ servo di Dio”, la cassetta con le reliquie dei Santi Alfio,
Filadelfio e Cirino. Questa fu consegnata ai sacerdoti della chiesa di Lentini
e, dopo una solenne processione, custodita nella Chiesa dei Martiri. Se i
cittadini lentinesi erano rimasti soddisfatti nelle proprie aspirazioni, la
chiesa leontina non poteva però chiudere questo capitolo della sua storia con
quell’atto di forza extra legem. A questo scopo, mandò vari doni ai monaci di
Fragalà e, successivamente, tramite la brillante arringa di difesa di don
Costantino, inviato espressamente dal senato lentinese in Vaticano, chiese e
ottenne da Papa Leone X la conferma della titolarità del possesso delle
reliquie e la remissione di ogni censura. Nel luogo in cui i Tre Santi
piantarono le castagne sorse successivamente una chiesa e la località, secondo
una delle interpretazioni etimologiche in voga, prese il nome di Trecastagni.
Fonte: glpress.it
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